mercoledì 6 settembre 2017

Il Penny Viaggiatore



«Lucas!»
L’uomo immerse un’ultima volta la faccia nella pozza d’acqua raccolta tra le mani, dopodiché chiuse il rubinetto e rispose urlando. «Arrivo!»
«Lucas!» chiamò di nuovo la voce.
Lucas sbuffò, scuotendo la testa. Guardò l’aspiratore, posizionato su una parete, che si occupava del ricambio d’aria nel bagno e si accigliò. Quel dannato affare era più rumoroso di un razzo in partenza da Cape Canaveral. Se solo avesse avuto i soldi per permettersi una casa con delle finestre in ogni stanza…
«Lucas!»
Aprì la porta del bagno e gridò: «Eccomi! Eccomi!» anche se non era più necessario, dato che il piccolo cucinino si trovava in fondo al corto corridoio che collegava i tre locali del modesto appartamento in cui viveva con la moglie. La raggiunse e la trovò seduta a tavola con un’espressione imbronciata. Davanti a lei erano poggiati due piatti stracolmi di pancakes ricoperti di sciroppo d’acero e bacon, mentre due bicchieri di vetro erano pieni fino all’orlo di succo di frutta alle arance rosse. La fissò negli occhi e le sorrise con gratitudine. Era bellissima, almeno per quanto lo riguardava. Alta un metro e settanta, lunghi capelli rossi che teneva sciolti, un viso che chiunque avrebbe definito innocente, con quel naso piccolo, la bocca sottile e gli occhi verdi e vispi, ma che in realtà nascondeva una personalità che ancora adesso riusciva a stupirlo. Quella mattina aveva ancora indosso la vestaglia da notte, segno che per preparargli quelle prelibatezze si era fiondata subito in cucina non appena aveva messo piede giù dal letto.
«Finalmente!» esclamò decisa.
Lucas ridacchiò. «Mi stavo preparando per poter presenziare a codesto banchetto.» la canzonò lui.
«Non fare l’idiota, non è divertente!» ma non riuscì a nascondere il ghigno che le affiorò alle labbra.
L’uomo si diresse verso la moglie e le diede un bacio sulla fronte. «Grazie.»
Lei, soddisfatta di quell’atteggiamento, ricambiò il sorriso e lo invitò a sedersi per cominciare. Si avventarono entrambi sul cibo, ripulendo i piatti in pochi minuti, tanto che sembrava si potessero conservare così, senza bisogno di essere lavati.
«Delizioso. A cosa devo questo onore?» domandò Lucas incuriosito, con voce quasi incomprensibile a causa dell’ultimo boccone che ancora stava masticando.
Marian fece un gesto con la mano come a voler indicare tutto e niente. «Sento che oggi sarà una giornata speciale.»
Questa volta il sorriso del marito fu ironico. «Mi daranno un premio per la sistemazione dello scatolame sugli scaffali?»
«E dai! Non essere così negativo.» gli disse lei allungandosi sul tavolo per dargli un colpetto su una spalla.
Lucas si fece pensieroso. Marian si impegnava tanto per renderlo felice, non gli faceva pesare nulla, e tutto ciò con cui lui poteva ripagarla era uno stipendio da impiegato in un supermarket, appena sufficiente per tirare avanti. Vivevano in un buco, in un anonimo palazzone di dodici piani situato in una zona industriale, in tutta la loro vita coniugale avevano fatto solo due vacanze, una delle quali era stata il viaggio di nozze, e nonostante non fosse stata una loro scelta, non avevano figli. Segretamente Lucas era grato di questo, anche se si odiava ogni volta che si scopriva a rifletterci su, ma non poteva farci niente dato che con ogni probabilità non sarebbe stato in grado di sostentarli degnamente.
«Lucas?»
La voce della moglie lo trascinò fuori dalla sua mente, riportandolo alla situazione reale.
«Sì, ci sono.»
Si alzò dalla sedia e anticipò la moglie nella raccolta delle stoviglie. Una volta che ebbe sistemato tutto nel lavandino, aprì il rubinetto e cominciò a sciacquare il suo piatto. Notò che Marian lo stava osservando divertita.
«Che c’è?» domandò lui.
«Beh, ammetterai che è strano vederti lavare i piatti.»
«Sai, non è facile evitare di fare le cose. Bisogna saper dosare con precisione le volte in cui fare qualche faccenda domestica per dare l’illusione di non essere uno scansafatiche.» scherzò lui ghignando.
Marian rise. «Già, come no. Vorrà dire che approfitterò di questa occasione per andarmi a preparare con calma.»
Lucas terminò di svolgere quel compito e andò anche lui in camera per vestirsi. Si mise di fronte al piccolo specchio appeso alla parete, un rettangolo di vetro contornato da una cornice di plastica bianca, e rimase a osservarsi per alcuni istanti. Non era più giovanissimo e quelli che una volta erano stati lunghi capelli color nocciola adesso presentavano una spruzzata di bianco su entrambe le tempie. La fronte ampia e spaziosa gli aveva sempre causato imbarazzo, fino a quando Marian non aveva affermato che fosse uno dei suoi tratti più distintivi, assieme al naso leggermente schiacciato e alla cicatrice a forma di shuriken che adornava la sua guancia destra. Gli occhi erano dello stesso colore dei capelli, e sul viso c'era un accenno di barba che Lucas non aveva rasato per pura pigrizia. Possedeva una corporatura massiccia, sebbene non perfettamente sviluppata fisicamente, ed era più alto della media, raggiungeva il metro e ottantacinque. Non appena accennò a cambiare posizione si immobilizzò, e si voltò a destra e a sinistra velocemente. Come al solito non notò nulla di strano, ma un attimo prima gli era parso di vedere qualcosa con la coda dell’occhio. Era un fenomeno cui era stato soggetto fin da bambino, e consisteva nell’osservare lampi di luce o qualcosa di ancor più difficile da definire, come una distorsione di ciò che lo circondava, proprio nell’angolo della visuale. Si era ovviamente sottoposto a tutti i controlli del caso, e qualsiasi esame avesse fatto era sempre risultato negativo. Così aveva imparato a conviverci, e ormai riusciva ad ignorarlo totalmente, senza dare a vedere quando accadeva. Tuttavia nell’ultimo periodo si era aggiunta un’altra componente a questo problema. Quando avveniva uno di quegli episodi, Lucas si sentiva sopraffatto, paralizzato dall’ansia, e il suo respiro diveniva addirittura affannoso. La sua testa si riempiva con un unico pensiero, ossia che arrivare oltre il punto in cui si trovava ora era impossibile, non vedeva futuro. Come al solito tentò di calmarsi, dicendo a se stesso che era tutto frutto della sua immaginazione, non esisteva alcun motivo logico per spaventarsi in quella maniera. Eppure la sensazione non si placò, bensì aumentò d’intensità. Neanche il rumore di passi concitati dietro di lui sembrò scuoterlo.
«Lucas, cos’hai? Sei pallido!» esclamò terrorizzata Marian.
Quando vide che il marito non le rispondeva cominciò a scuoterlo dalle spalle. «Lucas, dannazione! Riprenditi!»
Alla fine l’uomo riuscì a smuoversi quel tanto che bastava per lasciarsi cadere pesantemente sul letto. Le assi cigolarono rumorosamente, minacciando di spezzarsi da un momento all’altro. Dopo due minuti trascorsi senza che nessuno dei due dicesse alcunché, con Marian che teneva stretto tra le braccia il marito, finalmente Lucas fu in grado di articolare qualche sillaba.
«È… è stato… devastante.»
La donna sollevò il viso e mostrò un volto rigato dalle lacrime. «Che ti succede?»
«Io… davvero non lo so.»
Marian si asciugò le guance bagnate con il dorso del braccio e costrinse il marito a fissarla negli occhi. Sembravano vacui, come se il suo corpo fosse solo un contenitore vuoto ora. Ancor più spaventata di prima, la moglie si fece forza e assestò uno schiaffo deciso sul viso pallido di Lucas.
Subito lui reagì, sollevando gli arti in una posizione difensiva. «Sei impazzita?»
Il sospiro di sollievo che esalò dalle labbra di Marian parve portare con sé parte della tensione accumulata.
«Non eri qui con me, ho dovuto farlo.»
Si alzò e chiuse la porta, la cui serratura non scattò fino a quando la donna non le rifilò una potente spallata. Lo fece per dare il tempo al marito di riprendersi del tutto e raccogliere le idee in modo da poterle spiegare dettagliatamente ciò a cui aveva appena assistito.
«So che vuoi che ti dica qualcosa…» iniziò lui.
«Voglio aiutarti, ma per farlo ho bisogno di capire.»
Lucas annuì. Si passò una mano tra i capelli in disordine, come se volesse cercare di dare un senso almeno a ciò che poteva averlo. Il suono di un clacson giunse attutito dalla strada sottostante, probabilmente qualche pedone incauto aveva deciso di attraversare nonostante il semaforo fosse rosso. Accadeva di continuo.
«Te ne parlerò senza giri di parole, anche perché non saprei come altro fare. D’accordo?»
Marian assentì con un cenno del capo.
«Ultimamente i miei “episodi” sono peggiorati. Avverto anche qualcosa a livello mentale, come un attacco di panico, ma peggiore. Mi sembra che non ci sia più scampo, non so da cosa ma so che è così. Non andremo oltre, questo è il limite massimo che si può raggiungere.»
Lucas la guardò speranzoso, convinto che avrebbe condiviso il suo punto di vista. La moglie però non poté fare altro che domandare: «Il limite di cosa?»
Lui cambiò espressione e si accasciò su se stesso.
«Non lo so.» disse mestamente.
Marian non sapeva cosa rispondere. Voleva far sentire meglio suo marito, ma allo stesso tempo intendeva aiutarlo, e non poteva mentirgli. Aveva bisogno di aiuto, e il primo passo per ottenerlo era ammettere di avere un problema. Tuttavia preferiva evitare di allontanarlo facendolo apparire come un pazzo. Camminava su un sentiero tortuoso.
Lo strombazzare di un nuovo clacson riscosse Lucas dal silenzio in cui era caduto. Era un tipo sveglio, e dando un’occhiata alla moglie immaginò cosa le stesse passando per la testa. Così le prese il viso tra le mani e le diede un bacio, in un tentativo di rassicurarla. «Facciamo così. Ormai è ora di andare a lavoro, e non mi è mai capitato di avere due “episodi” nello stesso giorno, perciò dovrei essere al sicuro. Ne discuteremo di nuovo stasera, quando rientreremo.»
Marian sorrise, sollevata di avere più tempo per pensare a una soluzione.
«D’accordo. A stasera allora.»
Pochi minuti dopo Lucas stava camminando sul marciapiede affollato di passanti, gente in giacca e cravatta diretta nei lussuosi uffici del centro, teenager di varie età con lo zaino in spalla, pronti ad affrontare un'altra noiosa giornata di scuola, qualche anziano in pensione che ne approfittava per portare a spasso il proprio cane. All’incrocio tra Lexington Avenue e Green Road, nel momento in cui scattò il verde, due ragazzini con un pallone da basket in mano cominciarono a palleggiare evitando chiunque andasse loro incontro, come se avessero di fronte i migliori difensori della Lega. Passò davanti al venditore di hot dog, Jay se non ricordava male, e gli rivolse un cenno di saluto che il grasso omone ricambiò con energia. Ormai era diventata un’abitudine comprare il pranzo da lui, anche se era ben consapevole dei danni che procurava al proprio fisico nutrendosi in quella maniera.
Compì l’ultima svolta del suo percorso in Clyde Street, in fondo alla quale si trovava il supermarket in cui lavorava, e si preparò mentalmente per superare le successive nove ore. Odiava quell’impiego, ma non poteva dimettersi e a dirla tutta non avrebbe trovato nulla di meglio di quei tempi. I suoi colleghi non erano male, tuttavia il rapporto che aveva con loro si fermava alle porte scorrevoli che davano accesso al negozio. Mentre rimuginava sulla sua situazione, si accorse che poco più avanti, seduto per terra con la schiena appoggiata al muro di un condominio, c’era un barbone. Era vecchio, almeno settant’anni, indossava un cappellino da baseball verde malconcio, un giubbotto marrone strappato in più punti e dei jeans ridotti se possibile anche peggio. Le scarpe difficilmente si sarebbero potute definire ancora tali: quel poco di suola rimasta era consumata, e la parte che avrebbe dovuto ricoprirgli i piedi aveva così tanti tagli che a malapena si reggeva insieme. La metà del volto non nascosta dalla visiera del cappellino era celata dalla foltissima barba grigia incolta. Una ciotolina di plastica lì affianco conteneva un paio di spiccioli. La giornata doveva essere appena iniziata anche per lui.
Ciò che attirò l’attenzione di Lucas non fu solo l’insolita presenza di un mendicante in quella zona, bensì ciò che andava blaterando quell’individuo.
«La fine del mondo è vicina! Sta arrivando! La storia si ferma qui, non andremo oltre!»
L’espressione “non andremo oltre” sorprese Lucas a tal punto che si arrestò all’improvviso, rischiando di cadere subito dopo quando venne urtato da una signora in giacca rossa e capelli perfettamente in piega.
«Insomma!» esclamò indignata.
«Mi scusi.» disse Lucas, anche se non era sicuro che quella donna così piena di sé, questa era stata la sua prima impressione, l’avesse sentito dato che si era già allontanata di qualche passo.
«Ragazzo, un dollaro? Coraggio, non ti serviranno più quando il mondo sarà finito.» lo apostrofò una voce che riconobbe essere quella del barbone.
«Di che stai parlando?» gli chiese con aria indagatrice.
L’uomo assunse un’espressione sorpresa. «Non mi hai ascoltato? La fine del mo…»
«Non quello.» lo interruppe bruscamente Lucas. «La parte riguardante la storia che dovrebbe fermarsi qui. Cosa intendi?»
Alcuni passanti, costretti dalla presenza di Lucas a camminare per strada, divennero irritabili, in particolare un giovane sui diciott’anni, cappellino da rapper poggiato sulla testa e cuffie intorno al collo, decise di far valere le sue ragioni in malo modo. «Ehi stronzo, non lo vedi che stai bloccando il passaggio?»
Lucas, furente, si voltò di scatto verso il ragazzo che d’istinto arretrò di un passo. «Gira a largo, teppista.»
Il giovane, che nella sua baldanza non aveva notato la stazza di Lucas, decise che non gli sarebbe convenuto ingaggiare quel duello, e se ne andò mormorando qualcosa che suonò come un insulto.
Tornando a rivolgere la sua attenzione al barbone, Lucas si accorse che questi aveva cambiato radicalmente atteggiamento, divenendo distante e sospettoso.
«A te che importa?» disse, e dopo averlo squadrato da capo a piedi continuò. «Sei uno di loro, vero? Mi avete trovato alla fine. Speravo che i vaneggiamenti di un pazzo non avrebbero raggiunto le vostre orecchie, ma evidentemente sono stato ingenuo.»
«Perché dire quella frase?» insisté Lucas, ignorando il resto delle parole dette dall’uomo. L’ovvio collegamento tra la sensazione provata quella mattina e le affermazioni di quel mendicante non poteva sfuggirgli, ed era convinto che ci fosse qualcosa sotto.
«Guardami ragazzo, sono pazzo.» disse l’altro con un’alzata di spalle. «Onestamente lo faccio solo per tirare su due spiccioli e farmi un hamburger.»
«Vecchio folle!» esclamò Lucas irritato, voltandosi e lasciando di stucco gli astanti presenti in quel momento.
Mentre percorreva gli ultimi metri che lo separavano dall’ingresso del supermarket, rimuginò su ciò che era appena successo. Perché si era fatto prendere così tanto da quella storia? In fondo era solo un pazzo che annunciava la fine del mondo, non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo. Come aveva potuto credere che ci fosse anche solo un minimo di verità in ciò che diceva?
In realtà conosceva il motivo dietro le sue azioni, solo che non voleva ammetterlo a se stesso. Era esasperato da quella situazione, e pur volendo evitare di far preoccupare sua moglie più del dovuto, negli ultimi tempi gestire gli “episodi” stava diventando impossibile. Viveva nel terrore che da un momento all’altro scoppiasse una crisi, che quella sensazione di impotenza e di panico tornasse a pervaderlo e a paralizzarlo. La parte peggiore tuttavia era un’altra: la convinzione che le sue sensazioni non fossero da imputare ad una condizione clinica bensì che fossero reali. Ciò significava l’impossibilità di farsi curare e, più importante, la totale assenza di una spiegazione logica a quei fenomeni. Era esausto, e le azioni di quella mattina lo dimostravano.
Entrando salutò Billy che quasi non ebbe il tempo di rispondergli a causa dell’enorme quantità di articoli che un cliente aveva posato sul nastro della sua cassa. Si diresse nel retro dove ogni dipendente aveva una sorta di camerino personale per poter indossare la propria divisa, e velocemente si infilò i semplici pantaloni neri e la t-shirt monocromata di colore rosso, dove appuntò il cartellino col suo nome.
Trevor, il direttore del supermarket, lo prese da parte appena lo vide e gli fece una sorta di discorso di incoraggiamento con il quale sembrò volergli dire che il successo o il fallimento del negozio dipendevano interamente da lui. Lucas ascoltò distrattamente fino a quando, con una pacca sulla spalla, Trevor lo mandò a sistemare le merci sugli scaffali. Così trascorsero le successive due ore, tra prodotti in offerta da accatastare fino a formare pile più alte di un uomo e clienti svogliati che neanche provavano a cercare gli oggetti di loro interesse prima di chiedere informazioni. Nonostante il lento incedere della giornata, successivamente passata in cassa, Lucas fu grato per il semplice fatto di non essere nuovamente vittima dei suoi “episodi”. Solamente una volta, mentre batteva alcune buste di patatine, gli parve di scorgere qualcosa con la vista periferica, tuttavia si rese subito conto che doveva essere un contraccolpo psicologico dei fatti di quella mattina, perché durò solo un istante e non ebbe altre conseguenze. Intorno alle diciotto Trevor gli fece cenno che poteva andare a cambiarsi e finire lì per quel giorno. Salutato l’ultimo cliente, Lucas chiuse la cassa e si avviò nel camerino. Appena mise piede fuori fu raggiunto di corsa da Ester, una sua collega sui trentacinque, lunghi capelli biondi legati in una coda, piuttosto bassa ma carina. Come al solito tentò di farsi invitare a cena e come al solito Lucas dovette inventarsi una scusa per rifiutare. Avrebbe potuto dirle che era sposato e quindi non interessato, ma in quel caso sapeva quale sarebbe stata la sua risposta: è solo un’uscita amichevole, salti subito a conclusioni affrettate. Onde evitare, al momento preferiva rimandare la questione, anche se prima o poi avrebbe dovuto risolverla. Presero quindi due direzioni opposte, e lui si ritrovò a camminare sullo stesso percorso fatto all’andata, sebbene fosse un’abitudine per lui quella di tornare a casa seguendo un tragitto diverso. La cosa lo stupì, almeno finché non ammise a se stesso il desiderio di voler rincontrare il vagabondo che farneticava sulla fine del mondo.
Stava impazzendo anche lui.
Aumentò l’andatura scrutando a destra e a sinistra in cerca dell’uomo, ma a quell’ora, come al mattino, i marciapiedi erano gremiti di gente e una persona seduta a terra poteva facilmente rimanere nascosta dalla miriade di gambe in movimento. Giunto in fondo a Clyde Street, Lucas dovette rassegnarsi al fatto che l’individuo da lui cercato non si trovava più lì. Sconsolato, senza sapere bene perché, girò a sinistra, in Green Road, avanzando quasi meccanicamente. Lì un idiota aveva lasciato l’auto posteggiata in mezzo alla strada bloccando il traffico e causando un incredibile mix di rumori composto da vari suoni di clacson ed epiteti particolarmente volgari urlati a squarciagola. Proprio nel momento in cui il più irascibile degli automobilisti in coda si apprestava a scendere minacciosamente dalla sua vettura, il proprietario del veicolo uscì di corsa da un panificio e si precipitò al volante per sfuggire alla furia della folla. Fu a causa di tutto quel baccano che sulle prime Lucas non sentì le parole provenienti dall’altro lato della via.
«Sta arrivando! Non andremo oltre!»
Udendole si voltò di scatto, e senza curarsi del traffico che stava riprendendo a scorrere, attraversò.
«Ancora qui, vecchio?» lo apostrofò non appena gli fu davanti.
Il barbone lo squadrò da capo a piedi e dopo qualche istante lo riconobbe. «Ce l’hai o no un dollaro per me? Se non ce l’hai porta il tuo culo da un’altra parte.»
Lucas sogghignò. «Ti offro quell’hamburger, stronzo.»
«Perché lo faresti? La gente tende ad allontanarsi da me, non ad offrirmi la cena.» chiese diffidente.
«Voglio parlarti di una cosa.»
«Di che cosa?»
«Lo vuoi l’hamburger o no? Nel peggiore dei casi avrai rimediato il tuo pasto anche per oggi.»
Quell’ultima argomentazione parve funzionare, perché il vagabondo si alzò in piedi, con qualche difficoltà, e cominciò a seguirlo. Al loro passaggio le persone li fissavano stupiti, non riuscendo a capire cosa potesse accomunare due individui tanto diversi. Lucas non poté fare a meno di pensare a come i pregiudizi, i suoi compresi, fossero saldamente radicati nella mente di ogni essere umano. Estirparli era un lavoro duro e impegnativo, ma se non l’avesse fatto, quel giorno non gli si sarebbe presentata quell’opportunità.
Raggiunsero il banchetto di Jay, il venditore di hot-dog, che per fortuna non aveva ancora levato le tende, e presero due panini a testa più un paio di bottigliette d’acqua. L’uomo li osservò di sottecchi mentre preparava gli hot-dog, ma quando si vide recapitare il pagamento sorrise loro con gratitudine. Avrebbe servito anche un orso se questo avesse avuto il denaro per ricompensarlo.
La strana coppia si allontanò in direzione di un parchetto deserto che costeggiava una via secondaria. Era un ambiente piuttosto cupo, con solo due alberi e tre panchine disposte casualmente sul suolo ricoperto qua e là da chiazze di verde. Presero posto su una di queste dopodiché Lucas porse i due panini al vagabondo. Nonostante la fame che doveva attanagliargli lo stomaco, quest’ultimo si limitò a dare piccoli morsi ben distanziati nel tempo, un fatto che l’altro trovò molto curioso.
Lucas gli diede il tempo di finire con calma la sua cena, di mandare giù un lungo sorso d’acqua, e decise di attendere che fosse l’altro a prendere la parola. Il barbone però aveva lo sguardo perso in direzione del marciapiede fiancheggiante il parco, intento ad osservare le poche persone che transitavano in quella zona. Lucas allora si schiarì la voce, in un palese tentativo di richiamare l’attenzione del senzatetto. Quest’ultimo si voltò verso di lui, quasi come se fino a quel momento si fosse dimenticato della sua presenza.
«Che cosa ti serve?» domandò, riprendendo la sua aria scontrosa.
«Non pensi che volessi solo aiutare un uomo in difficoltà?»
«No. Se fossero esistiti i buoni samaritani a quest’ora li avrei già incontrati.»
Lucas annuì. «Mi sembra giusto.» poi continuò dicendo: «Voglio parlare di ciò che hai detto stamattina.»
L’uomo scosse la testa esasperato. «Oh, per la miseria! Te l’ho già spiegato, spero di suscitare compassione nei passanti e raccogliere un po’ di denaro per tirare avanti.»
Detto questo si batté le mani sulle ginocchia e fece per alzarsi. «Senti, ti sono grato per…»
«Aspetta!» gli intimò Lucas, fermandolo. «Cavolo, questo è assurdo, quello che sto per fare è assurdo!»
Si guardò intorno con circospezione, come ad assicurarsi che nessun altro potesse ascoltare le sue parole. Udì solamente alcune risate lontane e il verso di qualche volatile nascosto tra i rami degli alberi.
«Cosa è assurdo?» chiese il barbone scrollandosi di dosso il braccio di Lucas.
«Il fatto che io ti riveli questa cosa, ma sono al limite, non so più cosa fare e quello che affermi sembra avere un senso per me.»
Il senzatetto mutò leggermente la sua espressione, passando da un totale disinteresse ad una certa curiosità. Col suo sguardo fisso lo esortò a proseguire.
«Sono d’accordo con te, riesco a percepire che il limite oltre il quale non si può andare è vicino. Fino a stamattina non riuscivo a dargli un senso, forse perché lo ritenevo assurdo, ma da quando ho incontrato te, per qualche motivo la mia convinzione si è fatta sempre più forte. Ci ho pensato tutto il giorno. E se avessi ragione?»
Lucas buttò fuori le frasi tutte d’un fiato, come una pentola a pressione alla quale viene improvvisamente aperta la valvola di sfogo. Si sentì subito meglio.
«Cosa ti porta a confidare nei miei deliri con così tanta sicurezza? Chiunque ti prenderebbe per pazzo.» replicò l’uomo, anche se non sembrava proprio crederlo un folle.
«Ti ripeto che non so spiegarlo con certezza, ma una sorta di prova a sostegno di questa teoria la possiedo. Fin da bambino mi succedono questi strani “episodi”, in cui mi sembra di vedere come dei lampi di luce, o anche delle distorsioni, proprio nell’angolo della visuale. Tuttavia appena mi volto, qualsiasi cosa ci fosse, scompare. In aggiunta a questo, negli ultimi tempi vengo letteralmente sopraffatto da questa sensazione di ineluttabilità di cui parli anche tu.»
Ora l’uomo era seduto sul bordo della panchina, sporto verso Lucas, le dita della mano destra intente a grattarsi la barba mentre il suo cervello lavorava febbrilmente. Qualsiasi cosa fosse ora, in passato doveva essere stato sicuramente una mente acuta. Pareva stesse ragionando sulla successiva domanda da porre, soppesando con cura ogni parola da utilizzare.
«Parlami di questi lampi.» disse.
«Beh, potrei descriverli anche come percezioni. Il bagliore che vedo è concreto, ma c’è anche una componente mentale, ovvero la consapevolezza che non si tratta solo di me, del mio corpo.» Lucas tirò un pugno nel vuoto per la frustrazione. «È impossibile da spiegare, dannazione!»
Un passerò si librò in volo andando a posarsi sulla panchina poco distante dalla loro. Muoveva la testa a scatti, saltellando qua e là.
Il vagabondo raddrizzò la schiena e inspirò profondamente, come se dovesse fare un annuncio solenne. «È come lanciarsi nel vuoto con così poche informazioni, ciononostante come a te, anche a me non sono rimaste molte opzioni.»
Appariva ancora dubbioso, e infatti iniziò a parlare quasi con timore. «Tu… Tu…»
«Io cosa?» domandò Lucas impaziente.
«Oh, fanculo!» esclamò l’altro. «Tu conservi i ricordi della linea temporale precedente!»
L’uomo saltò letteralmente sul posto, sollevandosi di parecchi centimetri. Lo fissava incredulo, come se all’improvviso si fosse trasformato in un maiale volante.
«Hai… Hai capito quello che ho detto, vero?»
Lucas era quantomeno spaesato. «Sì, certo, ma…»
«Oh merda!» lo interruppe bruscamente il suo interlocutore. «Allora non sto sparando cazzate incomprensibili, ma frasi con un senso logico!»
«Amico, se continui così dovrò cominciare a credere alla storia della pazzia.»
L’altro scosse la testa. «No, scusami, hai ragione. È solo che dopo così tanti anni non ci speravo più…»
Si asciugò velocemente una lacrima con il dorso della mano. Lucas, non avendo ben capito cosa avesse causato quel moto di commozione, decise di dargli del tempo per riprendersi.
Trascorso un minuto, il senzatetto riprese a parlare. «Prima che inizi la mia storia credo che dovremmo presentarci: il mio nome è Samuel.»
L’altro strinse la mano che gli era stata porta e si presentò a sua volta. «Lucas.»
Samuel annuì soddisfatto. Il suo atteggiamento era completamente cambiato da quando si era accorto che l’uomo con cui stava conversando riusciva a capire tutto ciò che diceva. Adesso era quasi raggiante, si tratteneva a fatica dal sorridere ogni secondo.
«Probabilmente avrai già intuito dove voglio andare a parare, e naturalmente ti sarà difficile credermi, ma spero che le esperienze da te vissute ti aiutino a fidarti di me.»
«Beh, linea temporale precedente è un indizio piuttosto preciso…» disse Lucas.
«Già. Inutile girarci ancora intorno, sono Samuel Higgins, un… A dire il vero non avevamo ancora pensato al nome, ma penso che cronauta possa andare. Sono arrivato trent’anni fa partendo esattamente da quest’anno.»
Lucas lo sapeva, era ovvio ormai, pensava che avrebbe reagito con compostezza. E invece non ci riuscì, l’intera faccenda gli pareva surreale, non sapeva cosa rispondere. La sua parte razionale continuava a dirgli che era impossibile, che quell’uomo era un pazzo in cerca di attenzioni o di ingenui disposti a credergli per poi essere imbrogliati in qualche modo. Il suo istinto però sapeva che era reale, Samuel non mentiva. Era più di una sensazione, era una certezza.
«Va… Va avanti.» intimò.
«Certo!» esclamò il vagabondo, alzandosi di scatto. Alcuni rametti scricchiolarono sotto le sue scarpe, mentre lui si muoveva avanti e indietro gesticolando all’impazzata. «Lavoravo per un agenzia governativa chiamata National Research of Space and Time Administration, o NRSTA.»
«Non l’ho mai sentita nominare.»
«Ovviamente. Opera in segretezza ed è finanziata dal nostro governo allo scopo di riuscire a costruire una macchina del tempo funzionante. Beh, ce l’hanno fatta e stanno per testarla.»
Samuel fece una pausa, lo sguardo perso nel vuoto.
«Ad ogni modo, io sono, o meglio ero, colui che effettuò il test. La missione era semplicissima: tornare indietro di trent’anni, sotterrare una moneta in un punto prestabilito, e fare ritorno. L’obiettivo era quello di raccogliere dati e a capire il funzionamento di questo strabiliante fenomeno.»
Lucas ascoltava incredulo. Allo stesso tempo però, le cose cominciavano ad avere un senso, finalmente poteva spiegare i suoi “episodi”.
«Qualcosa andò storto.» continuò il vagabondo. «Riprogrammai il modulo per il viaggio di ritorno, provai più e più volte, ma non ci fu nulla da fare. Per farla breve, rimasi bloccato nel passato.»
Un’increspatura intorno agli occhi e alla bocca del narratore suggerì a Lucas che quell’evento dovesse avergli causato molto dolore, tuttavia decise di non domandare nulla per il momento. Si concentrò piuttosto su un altro aspetto.
«Nel tempo passato qui non hai mai provato ad alterare gli eventi? Sai, per fare in modo che la storia cambiasse.»
Samuel sorrise ironicamente. «Moltissime volte. Il primo periodo fu duro, feci molti altri tentativi di azionare il modulo, tristemente tutti ebbero lo stesso deludente risultato. Dopo ogni fallimento mi dicevo che non avrei mai smesso di provare, a qualunque costo. Pian piano però giunse la rassegnazione, quel dannato macchinario non funzionava!»
L’ultima frase si era trasformata in un urlo, e due rari passanti che camminavano sul marciapiede si voltarono incuriositi. Lucas guardò nella loro direzione preoccupato, ma Samuel li liquidò con un gesto della mano.
«Non preoccuparti, per loro si è trattato di un grido inarticolato.»
«Ancora con questo discorso, cosa vuoi dire?»
«Adesso ci arrivo. Decisi dunque di attuare ciò che hai suggerito poco fa, tentare di modificare gli eventi. Avvicinai Brook Aberdeen, colui che sapevo essere l’ideatore e inventore della macchina. Quando tentati di parlargli per spiegargli la mia situazione ebbi una sorpresa: non ci riuscivo. Qualsiasi cosa tentassi di dire si trasformava in un verso o in un fiume di parole insensato non appena usciva dalla mia bocca, la mia mente si annebbiava. Ben presto mi fu chiaro ciò che stava accadendo, o almeno questa è la mia teoria: io non posso interferire con l’evento che ha contributo ad alterare la linea temporale. Credo sia una legge del viaggio nel tempo, è parte del modo in cui funziona l’universo.»
«Questo farebbe di te il suo scopritore.» puntualizzò Lucas.
Inaspettatamente Samuel scoppiò in una risata. «Sì, immagino di sì.» concordò quando si fu ripreso. «La legge di Higgins.»
«Suona bene.» disse Lucas sorridendo.
Dopo quel momento di leggerezza, il vagabondo ritornò a parlare di come andò la sua vita successivamente, incupendosi nel processo. Il fallimento con Aberdeen era stato un duro colpo, il suo ultimo tentativo prima della resa definitiva. Si abbandonò a se stesso, cominciò a dormire per strada e a vivere grazie all’elemosina delle persone a cui faceva pena.
«Sai…» disse ad un certo punto, con la voce rotta dall’emozione. «Avevo una famiglia. Sono passati così tanti anni che ormai faccio fatica a ricordare i lineamenti dei loro volti, ma la loro memoria è l’unica cosa alla quale rimarrò sempre aggrappato.»
Fu scosso da alcuni singhiozzi silenziosi, la testa incassata nelle spalle rivolta verso il basso.
«Come si chiamavano?» azzardò Lucas.
Prima di rispondere tirò su con il naso per interrompere i singulti. «Mia moglie si chiamava Sarah, mio figlio più grande Walter e il piccolo Ryan. Ricordo che…»
Si interruppe bruscamente, come se si fosse appena risvegliato da uno stato di ipnosi in cui era stato costretto a dire cose che preferiva tenere nascoste.
«Perdona la divagazione, meglio concentrarsi sul discorso principale.»
Lucas intuì che riportare a galla i fantasmi del passato doveva essere doloroso e pericoloso per l’uomo che sedeva vicino a lui. C’era il rischio di perdersi lungo quella strada senza più trovare la via della sanità mentale.
«Bene, ho un’ultima cosa da spiegarti.» riprese. «Credo di aver capito cosa impedisce al modulo in mio possesso di riagganciarsi all’epoca da cui sono venuto.»
Prima ancora che finisse la frase, Lucas comprese. Era l’ultimo tassello del puzzle e fu come un pentamino che va ad incastrarsi perfettamente nell’alloggiamento vuoto della sua stessa forma.
«Non esiste più.» affermò con assoluta sicurezza.
Samuel aveva la bocca aperta, pronto a completare la sua frase, e dopo un istante di stupore la richiuse annuendo.
«Esattamente. Quando sono arrivato qui ho cancellato tutto ciò che sarebbe accaduto dopo la data della mia partenza, e adesso ogni volta che il giovane me compie quel viaggio, la storia si ferma.»
«Non andremo oltre.» concluse per lui Lucas.
«Già.» confermò il vagabondo, sorridendo mestamente.
Si piegò e raccolse un bastoncino con il quale si mise a disegnare alcune linee per terra. L’altro si chinò a sua volta, incuriosito, per osservare cosa stesse disegnando.

Indicò la “P” con la punta del rametto, poi percorse la semicirconferenza che aveva delineato fino a raggiungere la “A”, e infine si ricongiunse alla “P” seguendo il tratto retto.
«La linea temporale è intrappolata in un loop. Suppongo possa essere un altro di quei principi di cui discutevamo prima. Molto banalmente, anche perché non saprei neanche da dove cominciare per spiegarlo a un livello superiore, è un po’ come deviare il corso di un fiume. Ora lo scorrere del tempo è costretto a seguire il flusso da me creato, ma questo è profondamente sbagliato, riesco a percepirlo.»
«Sì, anche io.» disse Lucas sospirando.
Cancellò l’illustrazione con la suola, o quello che ne rimaneva, della scarpa. Rimasero in silenzio per alcuni secondi, intenti a riflettere sulle implicazioni di quella considerazione, con l’unica risoluzione possibile che aleggiava tra di loro come una nube temporalesca. Entrambi si rifiutavano di vederla, provando a cercare esiti alternativi, ma Samuel aveva avuto circa trent’anni per provare a trovarne uno, senza fortuna. Alla fine lui, il più pragmatico, espose a voce alta ciò che andava fatto.
«Lo so che quello che sto per dire è immorale, egoistico, ma lo dirò comunque. Devi uccidere Brook Aberdeen.»
Lucas sbiancò, terrorizzato dal concretizzarsi di quell’eventualità.
«Non… Non posso fa… Non posso farlo…» balbettò.
Il vagabondo lo prese saldamente per le spalle tirandolo verso di se. «Sì che puoi! Sei l’unico che può.»
Riscuotendosi, l’altro diede uno strattone liberandosi dalla presa, e si alzò in piedi allontanandosi.
«No, no cazzo! Non ucciderò un uomo! Fallo tu.»
«Lo farei, ma sono piuttosto sicuro che se mi avvicinassi a quel tizio con una pistola, finirei per spararmi in bocca.»
«Come puoi saperlo con certezza? Non hai mai provato, non sei un fottuto fisico.»
Anche Samuel si alzò a quell’affermazione, e irritato replicò: «No, tuttavia ho avuto abbastanza esperienze per capire come funziona questa maledetta cosa. Sicuramente più di quanto si possa dire di te.»
Si pentì subito di aver pronunciato quelle parole, non voleva far scappare la sua unica speranza, ma la rabbia aveva preso il sopravvento. Tirò un sospiro profondo nel tentativo di calmarsi.
«Ascolta.» riprese, aprendo le braccia in un gesto conciliante. «Hai ragione, è una brutta situazione.»
«Brutta? È una situazione di merda!» esclamò l’altro.
«Aspetta, fammi finire. È pessima, però ragioniamo un momento. Io non riuscirei mai a portare a termine questo compito, per i motivi spiegati prima, e se provassi a dirlo a qualsiasi altra persona, quest’ultima non comprenderebbe una singola parola. Potresti provarci tu, ciononostante non penso che qualcuno ti crederebbe, non hanno avuto esperienza dei tuoi “episodi”, quindi non ci sarebbe nessuna prova a sostegno delle tue teorie.»
Lucas schioccò le dita. «Ti impedirò di partire! In questo modo non ci sarà nessuna modifica alla linea temporale.»
Samuel scosse la testa. «Sceglierebbero qualcun altro e saremmo punto e daccapo.»
Dopo altri istanti di silenzio in cui il cervello di Lucas lavorò febbrilmente, il vagabondo si intromise nuovamente. «Lo sai anche tu, deve andare così. Hai una famiglia?»
Lucas annuì.
«Fallo per loro.»
«Lei.»
«Scusa?»
«Lei. La mia famiglia è mia moglie Marian.»
Samuel gli posò di nuovo la mano sulla spalla. «Se non lo farai rimarrete sempre bloccati in questo ciclo, senza la possibilità di vivere il resto delle vostre vite insieme.»
Lucas alzò lo sguardo, uno sguardo determinato, triste ma consapevole. «Ho come la sensazione che a breve sarà impossibile anche andare avanti a vivere in questo loop.»
«Già. Non so quanto ancora possa resistere.»
I due si separarono, Samuel ricadde sulla panchina, esausto pur non avendo fatto sforzi fisici, e Lucas intento a camminare in tondo sfregandosi il volto con le mani, come a voler far scivolare via la stanchezza. All’improvviso si fermò, di spalle rispetto al vagabondo.
«Lo farò. Diventerò un assassino.»



Marian allungò il bicchiere nella sua direzione, chiedendo implicitamente che le venisse versata dell’acqua.
Lucas sorrise. «Sempre pronta a far lavorare qualcun altro al posto tuo.»
«Sempre.» replicò lei divertita.
Il marito la accontentò, facendo fluire il liquido trasparente lungo il collo della bottiglia. Si soffermò a guardarlo mentre scorreva, così lineare…
«Lucas!» esclamò la moglie, sollevando la bottiglia prima che l’acqua tracimasse oltre il bordo del bicchiere.
«Oh, scusa, mi sono distratto.»
Lei lo squadrò preoccupata, il pensiero che volò ancora una volta a quella mattina. Aveva provato a parlargliene appena erano rientrati, ma lui aveva svicolato dicendo di sentirsi molto meglio, come non gli capitava da parecchio tempo a quella parte. Decidendo di non forzarlo, lei aveva desistito. Inoltre doveva ammettere che c’era qualcosa nella sua espressione, nel modo di muoversi, che la induceva a credergli.
«Sta tranquilla, non ho avuto nessun “episodio”. Semplice stanchezza, oggi è stata una giornata impegnativa.» la rassicurò lui.
In realtà continuavano a tornargli alla mente le parti del piano che aveva concordato qualche ora prima con Samuel Higgins. Ovviamente eliminare Aberdeen dall’equazione in quel particolare momento era inutile, dato che ormai la macchina era stata inventata. Perciò Lucas avrebbe dovuto farlo nel ciclo successivo.
Ma non ricorderò nulla! aveva protestato lui.
Lo so, dovrai riuscirci era stata la semplice risposta.
Poi Samuel gli aveva spiegato che per quel che ne sapevano, la loro conversazione poteva essere avvenuta già altre diecimila volte. Tuttavia gli “episodi” di Lucas potevano essere frammenti di ricordi che faticavano a manifestarsi chiaramente, rimanendo indistinti e indecifrabili. Tutto quello che doveva fare era appunto decifrarli.
Ce la farai, sei la mia ultima speranza gli aveva detto. Senza pressione, insomma.
Fu riflettendo su tutto ciò che gli sovvenne un’idea.
«Ehi Marian, prenotiamo dei biglietti aerei per domani mattina, che ne dici?»
Dapprima pensò che si stesse prendendo gioco di lei, come al solito, ma quando vide che non rideva affatto, chiese: «Cosa?»
«Hai sempre voluto visitare il Grand Canyon.»
«Certo, ma preferirei di più non essere sfrattata!»
Il marito si guardò intorno ironicamente, indicando le pareti. «Da questo buco?»
«Ascolta, Lucas…» cominciò lei, visibilmente in apprensione.
«No, no.» la fermò lui, prendendole le mani sul tavolo. «Non sto male, ok? E non sono nemmeno pazzo, vorrei solo darti qualcosa che desideri per una volta.»
«È quello che fai ogni giorno.» disse lei con dolcezza.
«Già, ma quello è piuttosto basilare.»
Si rese conto di dover trovare un modo per convincerla, uno plausibile.
«Lo stavo progettando già da un po’.» mentì. «Ho messo via una piccola quota ogni mese, accumulando un bel gruzzolo. Avrei voluto fartelo come regalo di compleanno, però mancano ancora tre mesi, e ormai sono arrivato alla somma che avevo preventivato.»
Rimase in attesa, fissandola negli occhi. Uno dei tanti autisti irascibili in strada premette violentemente la mano sul clacson, spedendo il rumore su fino al loro appartamento, ma questa volta non li distrasse.
«Dici davvero?»
«Sì, sì!» confermò lui, annuendo con entusiasmo per essere riuscito a coinvolgerla.
«E allora facciamolo. I Thompson vanno al Grand Canyon!» esclamò, parafrasando una celebre battuta dei Simpson.
Risero entrambi con contentezza, abbracciandosi. Cinque minuti dopo lei chiamò il suo capo per chiedergli le ferie, ottenendole senza problemi. Non si assentava praticamente mai dal lavoro, e date le poche disponibilità finanziarie evitava di organizzare viaggi, il che le permetteva di essere sempre disponibile ogni qual volta Ben, il suo superiore, lo richiedesse. Lucas invece finse la telefonata, poiché era consapevole che essere licenziato era irrilevante a quel punto.
Quando succederà? aveva voluto sapere lui prima di separarsi da Samuel.
Ormai ci siamo. Tra quattro giorni, di venerdì, alle 11.42 aveva sentenziato l’altro.
Sorrise alla moglie che stava ancora conversando col suo capo. Alla fine sarebbe riuscito a dargli quello che meritava.



Trent’anni prima…


William osservò rapito la faccia in rilievo del presidente Lincoln presente sul penny che teneva tra le dita. Per un istante gli parve che strizzasse l’occhio visibile in segno di approvazione. Si immaginò quello che gli avrebbe detto se lo avesse incontrato in quel momento: complimenti giovanotto, lei è un vero eroe americano. Scosse la testa sorridendo di quella fantasia assurda.
Si guardò intorno verificando ancora una volta di aver raggiunto la posizione esatta. Poco distante da lui correva una strada asfaltata percorsa sporadicamente dagli automobilisti, ai bordi della quale c’erano campi coltivati e prati con erba alta.
«Ce l’abbiamo fatta davvero!» esclamò. «Sono nel passato…»
Quel genio di Aberdeen aveva ragione, i viaggi nel tempo erano possibili.
«Ok, è ora di mettermi a lavoro.»
Individuò il punto prescelto in cui sotterrare la moneta, una robusta quercia stracolma di foglie che sorgeva a circa cinquecento metri dal rettilineo asfaltato. Vi si avvicinò e si fermò proprio sotto di esso. Scavò una buca poco profonda, ammucchiando il terriccio che avrebbe riutilizzato per ricoprirla lì affianco e vi depositò la moneta.
«Beh, arrivederci Signor Presidente.» disse scherzando, sottolineando la frase con un saluto militare.
Riempì nuovamente la buca, compattando il terreno con un paio di colpi a palmo aperto ben assestati, dopodiché sollevò il polso destro intorno al quale era legato il modulo per tornare al suo tempo. Si trattava di uno schermo da sei pollici assicurato con due cinturini al braccio dell’utilizzatore. La vera macchina del tempo si trovava nel laboratorio da cui era partito, il modulo serviva semplicemente come localizzatore temporale a cui agganciarsi.
William controllò che i parametri inseriti fossero corretti (aveva dovuto impararli a memoria e ripeterli almeno tre volte al giorno nella settimana precedente), diede un’ultima occhiata al paesaggio assicurandosi nel mentre che nessun automobilista fosse di passaggio per assistere alla scena, e premette start.
Attese i cinque secondi necessari preparandosi al salto…
Quattro…
Tre…
Due…
Uno…
Riaprì gli occhi che aveva istintivamente chiuso ed espirò l’aria che aveva trattenuto involontariamente.
Era ancora lì.
«Dannazione, devo aver sbagliato qualcosa nell’impostare i parametri.» disse, tentando di allontanare la paura.
Resettò il modulo, reimpostò i parametri e tentò per la seconda volta. Altri cinque secondi…
Spalancò le palpebre all’improvviso, ma già sapeva di non avercela fatta. Si trovava ancora all’ombra della gigantesca quercia, l’unico rumore era quello del vento che soffiava tra le foglie.
«Cazzo!» esclamò quasi sbattendo per terra il modulo. Arrestò il movimento del braccio appena in tempo.
«Ok, devo cercare di stare calmo. Probabilmente c’è un momentaneo malfunzionamento che si risolverà a breve. Riproverò tra poco.»
William fece altri cinquantasette tentativi quel giorno, ognuno di essi ebbe esito negativo. Il sole era ormai calato da diverse ore quando si decise ad ammettere la più amara delle verità.
Era rimasto bloccato nel passato.



Alcuni anni dopo…


Lucas camminava lungo il marciapiede deserto, illuminato a intervalli regolari da alti lampioni. Stava rientrando a casa dopo aver trascorso la serata con la sua fidanzata Marian. Era riuscito a convincerla ad accompagnarlo al pub sulla Decima, il Sail&Drink, dove si erano fatti una birra e avevano sfidato un’altra coppia ad una partita a Palla 8, una specialità del biliardo in cui Lucas era piuttosto bravo. Si era scoperto che anche Marian se la cavava in maniera niente male, sebbene la ragazza avversaria l’avesse definita “la classica fortuna del principiante” con una certa stizza. Marian le aveva sorriso e aveva incassato i venti dollari della posta in palio. Lucas ebbe un accesso d’ilarità ripensando a quel momento.
Poi d’un tratto, senza alcun segnale premonitore, gli tornò alla mente un’immagine che lo aveva perseguitato nelle ultime settimane: il volto di un uomo, un vecchio, con una barba lunga e incolta. Il resto dei tratti facciali era confuso, allo stesso modo di quando, appena svegli, si prova a ricordare i dettagli di un sogno che sta svanendo. Lucas però non aveva mai visto quell’individuo, ne era sicuro. Eppure, allo stesso tempo, era convinto del contrario…



Lucas era nel letto, intento a leggere un romanzo, ma le frasi continuavano a scorrergli davanti agli occhi senza che facessero scattare le connessioni neurali per carpirne il significato. Continuava a tornare all’inizio della pagina, rileggendo meccanicamente le stesse parole. Alla fine si arrese, depositando il libro sul comodino. Si concentrò sulla sua ossessione, cercare di ricordare dove avesse visto il barbone che affollava i suoi pensieri. Il processo era sempre lo stesso: rivedeva quel volto, spremeva fino all’ultimo goccio di energia mentale che possedeva per riuscire a capire chi fosse, e alla fine falliva. Due minuti dopo riprendeva daccapo.
Trascorse un buon lasso di tempo prima che decidesse di arrendersi e spegnere la luce.



Il cliente estrasse dal portafoglio i venticinque dollari necessari per pagare la sua spesa e li porse a Lucas. Quest’ultimo li prese e gli consegnò distrattamente il resto di tre dollari e ventisette centesimi, augurandogli una buona giornata. Approfittando del breve momento di quiete fece un cenno a Doug, il suo collega intento a sistemare dei barattoli sullo scaffale vicino alla cassa dove stava lavorando lui. Gli chiese di sostituirlo per un paio di minuti mentre andava in bagno.
Anche se l’aveva usata come scusa, una volta davanti alla turca decise di approfittarne comunque. In realtà aveva bisogno di stare un momento da solo per riflettere. Da quando si era svegliato quella mattina la situazione si era fatta sempre più assurda. Inizialmente aveva pensato che si trattasse del ricordo di un’avventura onirica avvenuta durante la notte, ma col passare delle ore si era reso conto che non era così. Le scene erano troppo vivide, la panchina al tatto sembrava reale, e l’uomo con cui aveva avuto la conversazione era sicuro che esistesse. Tuttavia l’argomento di cui avevano discusso era irrazionale. Pur non ricordando tutti i particolari, poteva affermare con certezza che si trattasse di viaggi nel tempo.
Si diede due botte in testa come a voler far ripartire un meccanismo inceppato, ma non ci fu nulla da fare, più di quello non avrebbe saputo.



Lucas correva a perdifiato, tanto che attraversò l’incrocio col semaforo rosso, evitando l’impatto con una berlina per poco più di un secondo. Il suono del clacson lo inseguì per alcuni istanti, ma lui non ci fece minimamente caso. Finalmente si era ricordato. Tutto.
La mattina, mentre percorreva la strada che lo avrebbe portato al supermarket dove lavorava, aveva avuto l’epifania. Come un fiume in piena che rompe un argine, i ricordi si erano riversati nella sua mente inondandola d’informazioni. Il vagabondo cronoviaggiatore William, il panino che avevano consumato insieme seduti sulla panchina, la linea temporale bloccata in un loop, e il piano elaborato per rimettere le cose apposto. Mancava un solo elemento per la certezza definitiva, ovvero la conferma del segno che avevano concordato.
Per questo motivo Lucas si stava precipitando al 221 di Bread Road, un vecchio edificio abbandonato utilizzato dai senzatetto come riparo durante la notte. William gli aveva detto che lo avrebbe trovato lì. Avrebbe dovuto fargli domande specifiche atte a verificare i fatti che gli erano tornati in mente, e se l’altro avesse risposto correttamente allora avrebbe saputo che era tutto vero.
Si fermò improvvisamente davanti ad un palazzo fatiscente di sette piani. I cardini del portone avevano ceduto e la massiccia tavola di legno pendeva sbilenca in procinto di staccarsi del tutto. Lucas varcò la soglia con circospezione, entrando in un corridoio buio. Ad ogni suo passo una nuvoletta di polvere si sollevava dal suolo e masse di calcinacci andavano a infrangersi contro il muro. Sulla destra comparve l’ingresso di una stanza non molto grande, con un’unica finestra cui erano state inchiodate orizzontalmente delle assi di legno, probabilmente per evitare che la pioggia si infilasse all’interno. Rimanevano comunque delle piccole aperture attraverso le quali filtravano lame di luce.
Due individui russavano sdraiati sul pavimento, e nonostante il discreto rumore che Lucas fece camminando, non si svegliarono. Lì non c’era l’uomo che stava cercando, quindi proseguì.
Finalmente, dopo aver esaminato altre quattro camere tutte uguali, ebbe fortuna.
Il vagabondo, William, era più giovane di come compariva nelle sue memorie, ma era senza ombra di dubbio la stessa persona. La barba e i capelli non si erano ancora ingrigiti, ma i lineamenti erano quelli che ricordava.
Anche lui stava dormendo. Lucas si accovacciò e lo scosse per la spalla, strappandolo ai suoi sogni. William mugugnò e si voltò sul fianco sinistro, squadrando la persona che aveva davanti con occhi ancora mezzi chiusi. Se li sfregò riuscendo a mettere a fuoco l’immagine più chiaramente.
«Chi sei? Cosa vuoi? »
E Lucas iniziò a raccontare, ogni cosa. Si fermava in passaggi cruciali che solamente William poteva conoscere, e attendeva che fosse proprio lui a completarli, confermando in questo modo la sua storia. Dapprima William lo ascoltò dubbioso ma rispondendo alle domande con interesse, poi quando raggiunse il punto riguardante il viaggio nel tempo i suoi occhi divennero lucidi. Faticò a trattenere le lacrime, e dovette asciugare col braccio quelle che si fecero strada contro la sua volontà. Iniziò a fornire le risposte ancora prima che Lucas finisse di parlare, talvolta con così tanta enfasi che quasi si mise ad urlare.
Una volta terminato, Lucas annuì solennemente.
«Dunque è tutto vero, non c’è scampo.»
William gli prese la mano e la strinse vigorosamente. «Sono felice di averti incontrato. La mia vita non aveva più senso, ma ora mi hai dato una nuova speranza. Mi spiace che sia tua a doverlo fare, e sono sinceramente rammaricato per la sorte che toccherà ad Aberdeen, tuttavia il tempo dev’essere guarito.»
«Sì, sono d’accordo. E adesso sono anche convinto di essere l’unico a poterlo fare.»



Brook Aberdeen stava pagando il conto alla cassiera di turno al Suburban, un locale fuori mano dove era solito farsi una birra in solitaria una volta alla settimana. La salutò con un sorriso ed uscì all’aria aperta. Quella sera era particolarmente fresca, e una piacevole brezza agitava le foglie degli alberi. Il Suburban si trovava lungo una stradina secondaria che costeggiava un boschetto, a un chilometro dalla città. Per chi non aveva voglia di mettersi al volante c’era un marciapiede che permetteva di raggiungere il centro abitato, anche se di tanto in tanto si vedevano alcune case, perlopiù costruite da famiglie benestanti che preferivano il silenzio della periferia alla caoticità della metropoli.
Aberdeen si tirò su il colletto della giacca e si incamminò, godendosi la carezza del vento sul volto. Gli piaceva quel percorso perché gli dava la possibilità di riflettere, e in quel periodo ne aveva sempre bisogno. Era vicinissimo ad una svolta, lo dicevano le ricerche e lo sentiva anche lui. Sarebbe riuscito a costruire una macchina del tempo funzionante, la più grande scoperta dell’umanità.
Distratto da questi pensieri, non sentì lo scricchiolio delle foglie secche causato dai passi di qualcuno che si avvicinava, e non vide neanche il silenziatore della pistola che l’individuo estrasse con estrema rapidità.
Il colpo che partì gli fu fatale. Cadde in avanti sul marciapiede, dove una macchia di sangue cominciò ad espandersi a vista d’occhio.




Lucas corse via, attraverso il bosco. Si era assicurato che nessuno lo vedesse arrivare, e ora che nessuno lo vedesse fuggire. Aveva seguito Aberdeen senza farsi notare e l’aveva atteso con pazienza fuori dal Suburban. Nel momento in cui l’aveva visto uscire, si era nascosto tra gli alberi e aveva proceduto parallelamente a lui, attendendo il momento propizio per agire.
Si fermò quando l’affanno gli impedì di proseguire oltre. Piegato sulle ginocchia, ripensò al destino dello scienziato. Non aveva rimorsi, tuttavia si sentiva incredibilmente triste per quello che era successo. Se ci fosse stato qualsiasi altro modo per rimediare...
L’oscurità lo avvolse. Annaspò alla ricerca di aria ma si rese conto di essere solo un residuato di coscienza. E negli ultimi istanti di consapevolezza, comprese: aveva potuto salvare il mondo perché lui non ne faceva parte. Non era mai esistito prima della modifica alla linea temporale, ed era solo grazie ad essa che era “nato”.

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