mercoledì 14 ottobre 2015

Resti di un passato dannato - Parte I



Nascosto dietro la roccia, poteva osservare il territorio sottostante senza alcun timore di essere visto. L’arrampicata su quell'altura non era stata facile, ma ne era valsa la pena visto il vantaggio strategico che aveva guadagnato. In cielo nuvole bianche come il latte si rincorrevano senza sosta, evitando però di andare ad oscurare il sole, quasi come se avessero stretto un accordo in precedenza. Con tutta quella luce, Mark sarebbe riuscito a distinguere una formica che camminava nel deserto, figuriamoci un idiota di un metro e ottanta che correva a perdifiato con a disposizione come unici nascondigli dei piccoli arbusti. Mark si sfilò il fucile da sopra la spalla e lo posizionò tra due rocce per migliorarne la stabilità, dopodiché si sdraiò al suolo e impugnò l’arma con entrambe le mani, tenendo la sinistra sulla canna e la destra sul grilletto. Avvicinò l’occhio al mirino di precisione e inspirò profondamente. La croce che indicava dove sarebbe finito il proiettile continuava a traballare, quando però Mark terminò l’espirazione, si stabilizzò perfettamente, come se si fosse incollata alla nuca dell’uomo in fuga. Non tirava un alito di vento, e senza attendere un istante di più, il cecchino premette il grilletto che fece partire il colpo con un boato. Mentre il fucile stava ancora rinculando, dalla testa dell’individuo esplosero una miriade di schizzi di sangue. Fu come se fosse inciampato, con l’unica differenza che da quella caduta non si rialzò mai più. Mark si rimise il fucile in spalla emettendo un sospiro di rassegnazione, poiché odiava dover uccidere qualcuno. Tuttavia non aveva avuto scelta, per proteggere la sua famiglia avrebbe fatto qualsiasi cosa.
La vittima era riuscita ad avvistarlo durante una delle sue spedizioni alla ricerca di cibo, e stupidamente aveva deciso di andare ad avvisare Nicholas, il cosiddetto boss della zona. Quest’ultimo, grazie all'ingente quantità di armi che possedeva e agli uomini al suo seguito, teneva sotto controllo tutti gli abitanti della regione pretendendo il pagamento di una tassa in cambio della loro permanenza sul territorio. Se non riceveva il carico pattuito non esitava ad eliminare l’intera famiglia, che si trattasse di adulti o bambini. Mark però, grazie ad una buona dose di astuzia e abilità, era riuscito a celare la propria presenza e quella dei suoi cari per diversi anni. Aveva trasformato un vecchio rifugio sotterraneo in un’efficiente abitazione di cui nessuno era a conoscenza, motivo per il quale era stato costretto ad eliminare la spia. Se quest’ultimo fosse andato a rivelare a Nicholas di aver avvistato persone sfuggite al suo controllo fino a quel momento, era sicuro che alla sua porta si sarebbe presentato un esercito pronto a sterminare chiunque si fosse trovato davanti.
Il lavoro però non era ancora finito, così in poco tempo scese dall'altura e raggiunse il cadavere disteso al suolo. Osservandolo, notò che il tiro era stato abbastanza pulito, col proiettile che era entrato e uscito, attraversando completamente il cranio dell’uomo. Scelse un punto poco distante, e inginocchiatosi incominciò a scavare una buca a mani nude. La terra gli graffiava le unghie incastrandosi sotto di esse, eppure Mark non faceva una smorfia, procedendo spedito nel suo compito senza riposarsi un attimo. Appena raggiunse la profondità desiderata, trascinò il corpo sull'orlo e lo spinse con un calcio nel luogo del suo riposo eterno. Dopo un ultimo triste sguardo al simile di cui si era preso la vita, Mark iniziò a ricoprirlo con la terra smossa in precedenza, fino a quando il suolo non assunse lo stesso aspetto che aveva prima dello scavo. Rimosse tutte le tracce nei dintorni che potessero indicare quanto successo, controllò il tutto una seconda volta per accertarsi di non essersi dimenticato nulla, e si incamminò in direzione di casa sua.


La svolta si avvicinava ad ogni passo, ormai ne mancavano al massimo tre. Helena era sicura che lui si stesse nascondendo lì dietro, e che una volta girato l’angolo gli sarebbe balzato davanti all'improvviso sorprendendola. Lo sapeva, eppure non riusciva a scrollarsi di dosso il timore di vederselo spuntare di fronte da un momento all'altro.
«Thomas, puoi uscire, lo so che sei lì.» disse la bambina, tentando di stanare il fratello con le parole. Ma quando vide che nessuno rispondeva alla sua chiamata, si decise a percorrere l’ultima breve distanza. Fece il primo passo e non successe nulla, mise avanti il secondo e ancora la situazione rimase tranquilla, provò con il terzo ma mentre ancora teneva il piede a mezz'aria, il ragazzo saltò fuori dal suo nascondiglio e la sollevò tra le braccia. Lei cacciò un urlo e cominciò a prendere a pugni la schiena di Thomas.
«Ti ho fregata sorellina!» esclamò ridendo.
«Non vale! Lo sapevo che ti nascondevi lì!»
«Certo, certo, hai vinto tu.»
«Ecco!» rispose Helena fingendo di imbronciarsi per qualche secondo e scoppiando a ridere subito dopo.
Aveva una risata cristallina e contagiosa. Era una bambina di nove anni, superava di poco il metro di altezza, e possedeva due grandi occhi verdi che risaltavano come perle sul suo viso. Portava i lunghi capelli biondi sciolti per assomigliare alla sua mamma, e ne era talmente orgogliosa che ogni qualvolta gli proponevano di tagliarseli lei si arrabbiava. Un piccolo neo circolare marchiava la sua guancia sinistra, tuttavia quando rideva la voglia spariva completamente all'interno della fossetta che le si formava.
«Giochiamo ancora?» chiese lei speranzosa.
Il fratello scosse la testa. «Lo sai che è arrivata l’ora dell’ascolto.»
Helena sbuffò scocciata. «Ma non ti parla mai nessuno!»
«Non lo puoi sapere Helena. Potrebbe arrivare qualcuno in cerca di aiuto un giorno o l’altro, e la mia radio ci permetterebbe di sentirlo se anche lui ne avesse una. A quel punto sarebbe nostro dovere aiutare quell'uomo a sfuggire alla grinfie dell’Orco.» gli spiegò con serietà.
La piccola sorrise e guardò divertita il ragazzo che non capiva.
«Che ti prende adesso?»
«Sei come il personaggio di quei vecchi fumetti che leggi sempre… com'è che si chiama?»
«Batman.»
«Ecco, lui! Sei un eroe come Batman!» esclamò Helena entusiasta, cominciando a scorrazzare fingendo di avere un mantello.
Thomas si mise a ridere, poi la afferrò per le spalle e la fermò. «Non sono come Batman, lui salva persone ogni giorno. Io cerco solo di rendermi utile almeno una volta.»
Helena notò che il fratello aveva perso il buonumore dopo quell'ultima frase, così lo prese per la mano e cominciò a trascinarlo verso la loro camera. «Dai Thomas, magari qualcuno ti sta già chiamando!»
Vedendo come la sorella si impegnava per tenerlo su di morale, il ragazzo si sentì subito meglio. La realtà era che lui aveva paura del mondo esterno, ed era profondamente grato a suo padre perché non gli aveva mai chiesto di accompagnarlo nelle sue spedizioni. Al contrario dei suoi due fratelli maggiori, a Thomas piaceva sentirsi al sicuro tra le mura di quel rifugio senza doversi confrontare con i terribili pericoli che lo aspettavano se fosse uscito fuori. Per questo però si autoaccusava di essere un vigliacco, e sentendosi in colpa, tentava di porre rimedio mettendosi in ascolto con la radio che aveva riparato tempo prima, in attesa di qualcuno che avesse avuto bisogno del suo aiuto, che gli dimostrasse come anche lui potesse diventare un sostegno per un’altra persona. A volte era sufficiente, altre volte non lo era, ma quando Helena era accanto a lui bastava sempre.
Entrarono tutti e due nella loro camera, una piccola stanza con due letti spinti contro la parete di destra, una scrivania con diversi componenti elettronici, radio compresa, sparsi in maniera casuale, e un armadio a muro dove erano conservati i suoi vestiti. Thomas si sedette sulla sedia e si calò le grosse cuffie sulle orecchie, manovrando con le manopole della frequenza fino a quando non fu soddisfatto, mentre Helena si sedette in silenzio sul letto osservando il fratello a lavoro. Assomigliava di più al padre, con l’identica fronte spaziosa, i capelli neri corti e gli occhi dello stesso colore, sempre vigili. In altezza non arrivava oltre il metro e settantacinque, ma tutti gli dicevano sempre che doveva ancora svilupparsi, anche se Thomas non ci credeva più molto ormai. Era ancora troppo piccolo per la barba, aveva solo quindici anni, per cui il viso glabro lo faceva sembrare più giovane di quanto già non fosse.
«Per adesso niente…» annunciò dopo che furono passati cinque minuti.
Mentre Helena stava per rispondere, entrambi udirono il rumore del portellone che veniva aperto. Si guardarono negli occhi per un secondo, poi senza dire altro si fiondarono nella stanza d’ingresso. Mark, loro padre, stava chiudendo la botola in cima alla scalinata d’accesso, girando la maniglia circolare con forza. Dopo pochi istanti arrivarono anche Paul e Kevin, gli altri due figli, e Lara, la moglie. L’uomo si diresse verso l’armadietto posizionato contro la parete, lo aprì e vi depositò il fucile senza dire una parola.
«Com'è andata papà? Hai trovato qualcosa?» chiese Paul, il maggiore, che si rammaricava di non essere uscito insieme a suo padre.
Il genitore scosse la testa mestamente, poi fece per andarsene in un’altra stanza ma venne trattenuto dalla moglie.
«Cos'hai Mark? Non ci hai detto una parola.»
L’uomo si passò una mano sulla fronte come a volersi tirare via la stanchezza di dosso. «Scusatemi, ma è stata una giornata davvero faticosa. Lasciatemi riposare ora, più tardi vi spiegherò tutto.»
Lara lasciò cadere la mano con cui l’aveva fermato e annuì comprensiva. Helena invece, con la spensieratezza dei suoi nove anni, non si fece intimidire dall’aria scontrosa del padre ed andò ad abbracciarlo.
«Sono contenta che tu sia tornato, papà.» affermò sorridendo.
Lui le posò un mano sulla testa piena di capelli e per un attimo gli scappò un mezzo sorriso.
«A dopo ragazzi.» disse rivolgendosi anche agli altri tre.
Quando fu uscito, il gruppo si spostò nella cucina, dove c’era un tavolo di legno per sei persone, attorno al quale si sedettero. Erano tutti preoccupati per Mark, poiché sebbene avesse tentato di nasconderlo parlando il meno possibile, si erano tutti accorti che qualcosa di diverso rispetto ai soliti pensieri lo turbava. Lara aveva i gomiti appoggiati sul tavolo e si teneva la testa tra le mani, con i capelli biondissimi che le ricadevano da ogni parte come se fossero le acque di una cascata dorata. Gli occhi che trasmettevano tutta la sua inquietudine erano di un azzurro vivido, sottolineati dalle ciglia sottili. Sottili erano anche il naso e la bocca, quasi come due linee appena abbozzate su una tavola rosa. Di corporatura era magra, non propriamente esile, alta come suo figlio Thomas. Aveva quarantasette anni, ma nonostante le difficili condizioni in cui viveva e quattro gravidanze, nessuno gliene avrebbe potuti dare più di trentacinque.
«A cosa stai pensando, mamma?» domandò Kevin.
Lei sollevò la testa e lo guardò un istante prima di rispondere. «A niente di particolare.»
Sapeva che anche i suoi ragazzi avevano notato qualcosa, ma sperava che non dandogli peso se ne sarebbero dimenticati.
«Non mentire, mamma. Sei preoccupata per papà, deve essergli successo qualcosa là fuori!» esclamò Kevin, alzando leggermente la voce.
«Stai calmo.» gli intimò Paul.
«Non ti ci mettere anche tu. Non crederti migliore di noi solo perché ogni tanto papà ti lascia uscire con lui.»
Paul sbuffò sonoramente. «Ecco che ci risiamo. Lo sai che non è così, perché continui a dirlo?»
«Perché se potessimo accompagnarlo tutti e due rischierebbe molto di meno! Chissà quale pericolo ha corso oggi, ma visto lo stato in cui si è ritirato suppongo che non fosse niente di semplice da gestire.»
Un greve silenzio calò nella stanza. Persino Helena nascose la testa tra le braccia incrociate sul tavolo, triste per la discussione dei due fratelli. Paul e Kevin si scontravano sempre per via dell’invidia che il secondo provava per il primo, poiché loro padre si faceva accompagnare solo dal maggiore nelle sue spedizioni. Kevin aveva ventuno anni, un fisico muscoloso tenuto in costante allenamento grazie a numerosi esercizi, e un'altezza da giocare di basket. Portava i capelli neri quasi rasati a zero, mentre si lasciava crescere un velo di barba atto a scurirgli la parte inferiore del volto. I tratti del viso erano molto squadrati, e contribuivano a dargli una sorta di aria imbronciata permanente. Paul invece era più magro, sebbene l’altezza fosse la stessa, e non condivideva la dedizione ossessiva del fratello per la forma fisica. Anche lui teneva i capelli corti poiché erano più pratici durante le lunghe escursioni all'esterno, e si rasava ogni mattina per mantenere il viso completamente pulito. I tratti facciali si mescolavano tra loro alla perfezione, donandogli un aspetto attraente, caratteristica ereditata dalla madre e causa del soprannome che i suoi fratelli gli avevano affibbiato, ovvero “principe”.
«Hai ragione, Kevin, sono preoccupata. Ma vostro padre ci ha sempre protetto durante tutti questi anni, e noi continueremo a fidarci di lui.» intervenne Lara nel tentativo di calmare gli animi.
«Già, come no.» disse il giovane prima di alzarsi e lasciare la stanza. La donna scosse la testa sconsolata, non avendo più la minima idea di come rapportarsi con il figlio.
«Io torno alla radio. Se hai bisogno di me, chiamami pure.» disse Thomas.
Lei annuì, sforzandosi di sorridere per nascondere il proprio turbamento interiore. La piccola seguì il fratello lasciando soli nella stanza Paul e Lara. Il giovane prese le mani della madre tra le sue e la guardò intensamente negli occhi.
«Stai tranquilla mamma, ci penso io a Kevin. Per quanto riguarda papà, sono certo che abbia una soluzione pronta per qualsiasi sia il problema da risolvere.»
La madre strinse forte la presa e annuì.


Mark sedeva a capotavola, e con la sua imponente mole pareva una montagna posta a protezione degli altri membri della famiglia. Dei quattro figli, quello che gli assomigliava di più era Thomas, anche se nessuno, escluso Kevin, condivideva la sua enorme stazza. Era più alto di tutti, raggiungeva i due metri, possedeva un’ampiezza di spalle da far invidia a una locomotiva, e due braccia grosse come tronchi d’albero. Nel complesso poteva tranquillamente essere scambiato per un gigante. Nonostante ciò era molto agile e veloce, tutti i lavori che eseguiva li svolgeva con precisione chirurgica e raramente lasciava qualcosa al caso. Questo era il motivo per cui quella sera non riusciva a darsi pace e continuava a tornare con la mente nel posto e nel momento in cui aveva finito di seppellire il cadavere dell’uomo a cui aveva sparato. Era sicuro di averlo sotterrato perfettamente, senza dimenticarsi alcun indizio che potesse guidare qualcuno a quella tomba improvvisata. Eppure là fuori c’era un morto, e nei dintorni l’unica persona autorizzata a mandare qualcuno all'altro mondo era Wendell, l’Orco. Ciò significava che nell'attimo in cui quel corpo fosse saltato fuori, Mark e la sua famiglia non sarebbero stati più al sicuro, perché anche se non direttamente, la loro presenza sarebbe stata rivelata. Inizialmente il capofamiglia aveva pensato di tenersi la cosa per se e vedere come sarebbero andate le cose, prima di mettere in allarme anche gli altri. Ma riflettendoci bene aveva realizzato che ciò non era possibile, poiché di sicuro avevano già fiutato che qualcosa non andava. Tuttavia scelse di salvaguardare almeno i suoi due figli più piccoli.
«Thomas, porta tua sorella di là per qualche minuto.»
«D’accordo papà.» disse il ragazzo che in qualche modo aveva compreso le intenzioni del genitore. «Andiamo Helena.»
La piccola sbuffò ma si accodò al fratello senza fare altre storie.
La tensione era palpabile, i tre rimasti guardavano Mark con apprensione in attesa che iniziasse a raccontare. L’uomo allora non aspettò oltre, e dopo un ultimo sospiro prese la parola.
«Durante la spedizione di questa mattina un uomo mi ha visto.»
«Ti hanno...» cominciò Kevin prima di venire zittito dal cenno imperioso del padre.
«Io stavo rientrando, ero già nel deserto, quando mi sono accorto che un tizio mi aveva notato da lontano. Probabilmente la sua abitazione era lì vicino, altrimenti non c’era motivo per cui dovesse trovarsi lì. Ha cominciato a correre, così mi sono arrampicato su una piccola altura per poter osservare la direzione da lui intrapresa, e quando non ho avuto più dubbi sul fatto che stesse puntando l’accampamento di Wendell, l’ho ucciso.»
Lara si mise le mani davanti alla bocca facendosi scappare un’esclamazione, mentre i due figli tentarono di rimanere impassibili con scarso successo.
«Non avrei voluto rendervi partecipi della cosa, ma non ho potuto fare altrimenti, e dato che lo sapete, intendo dirvi anche come mi sono sentito. Ho odiato il momento in cui ho imbracciato il fucile, ho disprezzato l’attimo in cui ho accostato l’occhio al mirino, e ho detestato con tutto me stesso il secondo in cui ho premuto il grilletto. Non conosco la storia di quella povera anima, tuttavia lo rifarei anche adesso, giacché quel gesto è servito a proteggerci. Questo mondo è malvagio, ricordatevelo.» disse, scandendo le ultime parole con particolare enfasi.
La moglie si alzò e si avvicinò al marito per abbracciarlo, ma quest’ultimo la fermò. «Per favore, siediti Lara. Non l’ho detto per ottenere la vostra compassione, bensì perché siate pronti a fare tutto il necessario quando se ne presenterà la necessità.»
«Non ti offro la mia compassione, ti offro il mio supporto per aiutarti a sostenere questo fardello.» spiegò Lara, rimettendosi a sedere.
«Me ne farò carico da solo, è il mio compito.»
«Ti rendi conto che non siamo dei bambini, papà? Possiamo aiutarti anche noi, dannazione!» esclamò Kevin, battendo con forza il pugno sul tavolo e facendo sobbalzare il fratello e la madre.
«Kevin, dai ascolto a papà una buona volta!» replicò Paul con la stessa energia.
«Basta!» tuonò Mark con la sua voce profonda. «Dici di non essere un bambino ma la maggior parte delle volte hai un comportamento infantile.»
Adirato, il ragazzo si alzò in piedi e puntò il dito contro il padre. «Voglio solo aiutarti! Stai invecchiando, un giorno o l’altro gli uomini di Wendell ti sorprenderanno e ti pianteranno un proiettile in testa! Non riesci a capirlo?»
«Esci.» si limitò a rispondere Mark.
Dopo un istante in cui sembrò che volesse dire qualcosa, Kevin tornò stranamente calmo. «Come vuoi, tanto stavo per andarmene comunque.»
Non appena fu uscito, il capofamiglia continuò come se niente fosse successo. «Ho paura che qualcuno possa scoprire il corpo e cominciare a indagare sull'assassino, motivo per il quale domani tu e io andremo a prelevarlo e lo porteremo qui.»
Paul annuì.
Lara si alzò nuovamente e poggiò la sua mano delicata sulla spalla del marito. «Kevin vuole solo rendersi utile, cerca di capirlo.»
L’uomo, senza girarsi, prese il braccio della moglie e la costrinse a mettersi di fronte a lui. «Non ho bisogno di Kevin, l’aiuto di Paul è più che sufficiente.»
La donna scosse la testa contrariata, ma non disse nulla. Rivolse a entrambi un cenno di saluto e si diresse verso la sua stanza. Udirono i passi che si allontanavano, fino a quando il rumore di una porta che si chiudeva non li nascose alle loro orecchie. Paul voleva chiedere spiegazioni al padre sul trattamento riservato al fratello, al contempo però non intendeva fargli credere che dubitasse dei suoi metodi.
«Per trasportare il cadavere potrebbero servire tre persone.»
«Pensi di non farcela?» domandò Mark inarcando il sopracciglio.
«Non ho detto questo.»
«Ottimo, allora va a riposarti. Domani sarà una giornata faticosa.»


Nel buio pesto in cui era immersa la casa, due occhi si spalancarono scrutando l’oscurità. Rimanendo sdraiato e immobile, Kevin tese l’orecchio per verificare ancora una volta che il fratello stesse dormendo. Udendo il suo respiro regolare si arrischiò a girarsi, e tentò di effettuare un’ulteriore verifica osservando il petto di Paul che si alzava e si abbassava ritmicamente. Quando fu completamente sicuro che l’altro stesse sognando, Kevin si mise a sedere sul bordo del letto molto lentamente e cominciò a vestirsi. L’assenza di luce lo ostacolava e lo fece quasi cadere nel momento in cui provò ad infilarsi i pantaloni, costringendolo a puntellarsi con le braccia sul materasso, cosa che provocò un leggero cigolio. Con il volto deformato da una smorfia, Kevin vide il fratello rigirarsi nel letto e per un interminabile attimo pensò di averlo svegliato. Poi, con un sospiro, Paul riprese a sognare e il ragazzo poté tranquillizzarsi. Prese le scarpe da sotto il letto e uscì dalla stanza, prestando la massima attenzione a evitare qualsiasi potenziale ostacolo.
Kevin aveva passato ogni istante a riflettere sul da farsi da quando lui e suo padre avevano litigato, e si era deciso a dimostrargli che poteva cavarsela benissimo là fuori. L’unico modo che aveva per riuscirci era quello di recuperare il cadavere da solo, quella notte.
In punta di piedi raggiunse l’ingresso del rifugio, si sedette sui gradini e cominciò ad infilarsi le scarpe.
«Vai da qualche parte?»
Il ragazzo saltò letteralmente in piedi brandendo la scarpa come fosse un’arma. Scrutando nel buio intravide un’enorme sagome appoggiata al muro con le braccia conserte.
«Papà?» chiese sorpreso.
Mark gli si avvicinò fino a metterglisi di fronte, e cominciò a fissarlo intensamente, al punto tale che il figlio dovette distogliere lo sguardo.
«No, io stavo solo…» per un secondo pensò di mentire, poi emise un sospiro che suonò come una confessione. «Volevo andare a recuperare il corpo.»
Il padre annuì. «Lo so.»
«Come?»
«Ti conosco ragazzo.»
«Mi hai aspettato qui tutto questo tempo?» domandò ancora.
Un altro cenno affermativo di Mark gli fornì la risposta.
Sconfitto, Kevin si sfilò la scarpa e voltò le spalle all'uomo sulla soglia. «In questo caso me ne torno a dormire.»
Mark osservò in silenzio il figlio che trascinava le gambe per tornarsene a letto. La vera ragione per cui non voleva portare Kevin in esplorazione era il carattere del giovane, troppo irascibile e avventato, il che lo rendeva imprevedibile, una variabile che in quel mondo selvaggio non poteva permettersi. Su Paul era certo di poter contare, sicuro che avrebbe seguito ogni suo ordine senza discutere, e in una situazione di pericolo ciò poteva far pendere l’ago della bilancia a favore della vita. Tuttavia si rendeva conto che il ragazzo aveva ormai ventun anni, e che non sarebbe riuscito a tenerlo rinchiuso ancora per molto contro la sua volontà. Quindi, se doveva succedere era meglio che accadesse ora, quando ancora poteva fornirgli consigli e insegnamenti che in futuro gli sarebbero stati utili a cavarsela da solo.
«Tieniti pronto, usciamo alle prime luci.» gli comunicò Mark.
Kevin si voltò di scatto con gli occhi spalancati dallo stupore.
«Cosa?» chiese, senza riuscire a tenere un tono di voce basso. Ma l’uomo se n’era già andato, e al giovane quelle parole erano bastate perché un sorriso di soddisfazione a trentadue denti gli comparisse sul volto.


Erano già trascorse due ore da quando avevano lasciato il rifugio e si erano messi in cammino. La giornata era soleggiata e calda, anche se un ammasso di nuvole in lontananza minacciava di portare pioggia prima del calar della sera. Il punto in cui Mark aveva seppellito il cadavere ormai non distava molto, mezz'ora al massimo. I suoi due figli camminavano dietro di lui trasportando una barella su cui successivamente avrebbero caricato il corpo. Si stavano muovendo in un’ampia distesa desertica punteggiata qua e là da modesti rilievi, e escludendo gli arbusti che crescevano di tanto in tanto, erano completamente esposti e senza alcun vero nascondiglio a disposizione. Quello era il tratto più insidioso, da affrontare il più velocemente possibile per evitare di essere scoperti.
«Muoviamoci.» si limitò a dire Mark, aumentando improvvisamente l’andatura.
In meno di un quarto d’ora raggiunsero la meta prefissata, ma a poche centinaia di metri di distanza Paul fece cenno agli altri due di fermarsi.
«Ascoltate bene.»
La loro visuale era ostruita dall'altura su cui Mark si era arrampicato il giorno precedente per sparare, tuttavia si avvertivano molto chiaramente delle voci che discutevano.
«Siete sicuri di non essere stati voi?» domandò una voce profonda e echeggiante.
«Sì capo, ne siamo certi.» rispose qualcun altro, evidentemente spaventato dal primo.
«Questo mentecatto ha un buco in testa e a Wendelland nessuno possiede armi oltre a me, quindi chi cazzo è stato a farlo fuori?» sbraitò quello al comando.
Mark aveva stretto il pugno così forte che le unghie gli si erano conficcate nella pelle, facendo scendere dei sottili rivoli di sangue. Kevin e Paul notarono la cosa, e il maggiore gli prese la mano forzandolo ad aprire le dita.
«Papà, che stai facendo?» gli chiese.
Con una pacatezza in totale contrasto con l’intera situazione, l’uomo replicò usando due semplici parole. «Siamo fottuti.»
I ragazzi si guardarono con estrema sorpresa, non abituati a sentire il padre parlare in quel modo, anzi, la volgarità era una caratteristica che non gli era mai appartenuta.
«Arrampichiamoci per osservare la situazione. Se sono in pochi potremmo coglierli di sorpresa e ucciderli tutti prima che diffondano la notizia.» propose Kevin.
«Cosa? Quello è Wendell, l’Orco, l’uomo che possiede un esercito!» protestò Paul.
«Anche lui può morire, fratello.»
«Potresti anche riuscire a farlo fuori, ma un istante dopo ti ritroveresti a terra in una pozza di sangue. E a quel punto chi proteggerebbe mamma, Thomas e Helena?»
«Torniamo indietro. Raduniamo le nostre cose il più in fretta possibile e ci mettiamo in marcia verso est.» intervenne Mark, che nell'ultimo minuto sembrava aver riordinato le idee.
Quella frase gli fece guadagnare un’altra occhiata sorpresa da parte dei figli.
«Siamo cresciuti in quella casa, è sicura, non ci troveranno mai!»
«Già! E poi quanto potremmo durare in viaggio? Dove andremo, non sappiamo neanche se ci sono altre zone vivibili al mondo.» continuò Kevin.
Senza rispondergli, il padre si voltò e cominciò a camminare nella direzione da cui erano venuti. Srotolò il filo che teneva arrotolato attorno alla vita, alla cui estremità era legato un bastone dritto che strisciando leggermente sulla sabbia eliminava qualsiasi traccia. I ragazzi si affrettarono a fare lo stesso, utilizzando anche loro lo stesso strumento. Dopo pochi passi Mark accelerò, arrivando quasi a correre.
«Se decidono di venire da questa parte ci vedranno. È la prima volta che faccio così tanto affidamento sulla mia fortuna.»
In un tempo minore di quello impiegato all'andata il gruppo riuscì ad uscire dalla zona pericolosa, e ad un cenno di Mark si fermarono qualche minuto per risposare. La situazione era brutta, il peggior scenario che si potesse immaginare si era appena concretizzato. Wendell aveva scoperto che qualcuno non pagava la tassa per il diritto alla vita, e pur di scovarlo avrebbe fatto di tutto da adesso in avanti, mettendo i suoi uomini a guardia di ogni angolo del territorio. Anche se, per grazia divina, l’Orco non fosse riuscito ad individuare il rifugio, Mark non sarebbe più potuto uscire a cercare cibo, il che li avrebbe costretti a barricarsi a oltranza fino a esaurire le scorte di viveri. A quel punto la scelta sarebbe stata tra il morire di fame o l’essere giustiziati con un colpo alla testa. L’unico modo che vedeva per sfuggire a questa terribile prospettiva era quello di anticipare le mosse del nemico, sparendo dalla circolazione il più in fretta possibile. Forse non c’era null'altro da trovare, o forse la morte li avrebbe sorpresi durante il lungo viaggio, ma tra le due, l’opzione con più possibilità di successo era sicuramente la seconda.
«Forza, ci manca ancora molta strada da fare.»


«Helena, vieni a darmi una mano!» la chiamò la madre dalla cucina.
«Tra poco mamma, ora sto aiutando Thomas.» gridò lei in risposta.
ll fratello si girò a guardarla divertito, conscio della furbizia che possedeva.
«Che c’è?» fece lei, con quello scaltro sorriso dipinto in volto.
«Lo sai, vai di là ad aiutare veramente.»
Helena balzò giù dal letto borbottando, e prima di sparire oltre la soglia si voltò e gli fece la linguaccia. Thomas scoppio a ridere scuotendo la testa. Erano lì da un’ora ormai, e più che concentrarsi sulla sua attività si era divertito a scherzare con la sorella. Ora che se n’era andata per forza di cose tornò a focalizzare la sua attenzione sulla radio. Non ricordava neanche più quanti giorni si era seduto su quella sedia sperando che qualcuno avesse qualcosa da dirgli. Era diventato una specie di rituale, un’azione quotidiana alla quale non poteva rinunciare, anche se le speranze che le cuffie si animassero con il suono di una voce si affievolivano di volta in volta. Il solo sedersi, manovrare le manopole della frequenza, osservare tutta l’attrezzatura, contribuiva a fargli raggiungere uno stato di quiete in cui poteva dimenticarsi dell’orrendo mondo in cui viveva. Per questo motivo, quando udì delle vere e proprie parole che gli fecero vibrare i timpani, non poté credere a quanto stava accadendo.
«...mero diciassetemilacinquecentotredici. Ci troviamo sulla costa est dei vecchi Stati Uniti d’America, in prossimità del luogo dove sorgeva la città di Houston. Siamo riusciti a creare una comunità sicura. Se qualche sopravvissuto è all'ascolto non esiti a raggiungerci, vi accoglieremo a braccia aperte. Comunicazione numero diciassettemilacinquecentotredici...»

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